FURIA
Grazia Maria Regalino
curatore Kamil Jarzembowski
Alessandro Vitiello Home Gallery – Roma | Ottobre 2017
11 impressioni per Furia
11 impressioni per FURIA
Prof. Fanio Ajello
Grazia Maria Regalino mette davanti alle tele bianche treciotole di colore, giallo, rosso, celeste, poi attutisce
la luce nella camera fino all’ombra, immerge, inzuppa,
le dita nei colori e poi li scaglia con furia sul bianco
della tela, poi in un attimo si acquieta dirimpetto al magma e vi mette dentro
le palme, le dita sui colori e comincia a dipanarli, straziarli, poi prende i pennelli razionali e via insegue lunghe strisce che si arrotolano dintorno, sfuggono via, poi li ferma e li rilascia libere di fare, e tutto diventa tracce di un io sussultante, di una disperazione, della cerca di un’armonia nella disarmonia delle cose ritratte, del mondo non scritto che si fa scritto pieno di colore, di segnoimbevuto,
di allegorie.
Qui è tutto un vedere, un immaginare che costituisce
il tempo delle figure. Queste sono figure viventi che hanno vissuto, amato, odiato. Sono furiosi nella loro allegria. Squietano lo spazio, il tempo che l’incornicia. Immaginiamo soltanto quante cose avrebbero da dirci se solo avessero una voce.
Possiamo dare un nome ad ognuno di questi signori? Ogni faccia ha il nome del colore che la contiene.
C’è il signore del blu elettrico, quello del giallo ocra,
un signore celeste, uno grigio, e uno acchittato tutto bianco. Nel frattempo, altri colori attorniano le facce, vorrebbero farne parte.
Ma anche i volti vorrebbero fare lo stesso: vorrebbero slabbrarsi, mettersi dentro i colori che li accerchiano.
I visi amerebbero fare un tutt’uno col rosso, col giallo, coll’azzurro. Vorrebbero diluirsi in macchie (lo sono già?) e con rabbia fare fagotto e andare via dal
quadro, via dalla cornice.
Ma qui non c’è solo disperazione, ma anche un giocare, un divertirsi, un’arte comica cercata per ridere sotto i baffi. Che questi signori ritratti siano dei clown? dei pagliacci? che se ne vanno fuori da ogni norma (pittorica) a sbeffeggiare. Degli strambi senza canone, imprevedibili, fatti solo di colore, come quelli descritti da Starobinski, gnomi che sopraggiungono d’improvviso nei racconti, e dove «in apparenza gettano tutto per aria, seminando ovunque la confusione; ma sempre, alla fine della storia, la loro balordaggine risulterà provvidenziale, in obbedienza ad una logica fiabesca che manda a vuoto tutte le ragionevoli previsioni: essi sono gli aiutanti della vita e dell’amore minacciati, la sfida alla serietà delle nostre certezze, e aprono una breccia per la quale potrà spirare un vento d’inquietudine e di vita».
E viene un sospetto, che qui sia sempre la stessa persona che si maschera con un cartone con gli elastici tesi dietro le orecchie. Che sia uno di quei matti che Grazia Maria Regalino ha tenuto a lezione, lì in quel centro d’igiene mentale dove li ha aiutati a dipingere. Sarebbe quindi fuggito fin qui per tornare a colorare (a colorarsi) ma senza farsi riconoscere. E perché sarebbe venuto a confondersi all’improvviso con questi mascheroni? Per metterci paura? Divertirsi alle nostre spalle? oppure vuole soltanto abbandonare lo spavento della mente, e farsi ricordare, forse addirittura amare.
Questi ritratti di signori messi uno accanto all’altro sono capaci di raccontare una storia, di intrattenerci con un racconto? Può nascere da qui un plot, un intreccio narrativo? Forse sì, anche se non c’è tempo, c’è solo descrizione. E qui, come in una fotografia, come in una illustrazione, il racconto è altrove, nei bordi, e si snoda accanto. E ognuno che guarda i ritratti s’immerge in quei colori, in quegli sguardi e li mette in sequenza come a fare un graphic novel, a montare un cartoon (forse autobiografico) e riceve il suo racconto, apprende qualcosa della loro vita (e della sua), e si fa subito sotto gli occhi un teatro di vicende, incanti, dolori.
Si potrebbero incollare su un album queste facce come delle figurine, una accanto all’altra. E si potrebbero anche scollare e mettere in sequenze differenti, mettendoli uno di fronte all’altro, dare loro una direzione, consegnargli un tempo, una faccenda, un racconto, e farli guardare tra loro, parlare tra loro, fare combriccola. Chissà che cicaleccio, che racconti, che disperazione, che allegria farebbero.
Gli occhi qui fanno tutto e gli occhi sono dappertutto. Occhi che piangono. Occhi furiosi. Occhi sospettosi. Occhi ilari. Sono tutti tondi e non guardano chi li guarda. Sono occhi curiosi, birbanti, spaventati. Sono occhi che hanno visto, e guardano sempre di lato come di qualcosa che all’improvviso possa sopraggiungere. Sono occhi impauriti. E sembrano soltanto chiedere di essere visti, e solo nella maniera in cui chiedono di essere guardati.
È come se questi volti emergessero, affiorassero da un mare di colore che sta lì per sommergerli. Sembrano degli esuli, degli «immigrati» giunti da chissadove fra noi. Quale sia il loro «altrove» da cui provengono non è dato sapere. Quel che è certo è che ora che sono comparsi qui, essi ci stanno e stanno con noi. Sono venuti forse per dirci di un mondo estraneo nel quale siamo noi tutti e dal quale sfuggire non è possibile; o per dirla col Calvino delle Città invisibili: «per cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
C’è un’affettuosità in queste sagome distorte, un’armonia in questa disarmonia, quasi un’esattezza. Viene la voglia di accarezzarli questi volti, di spendere per loro una parola buona.
Si ha l’impressione che siano stati discriminati. Peccato che non abbiano voce, parola. Li avremmo ascoltati con interesse, anche se non sappiamo cosa ci avrebbero detto quelle bocche così colorate dalle labbra enormi che ci fanno dei segni (degli sberleffi?) come i muti con le labiali.
Guardando questi quadri sembra di guardare là fuori, in un lontano da noi, ma così vicino, aderente. Queste facce non sono definite, sono approssimative di ogni possibile volto. Eppure, sembrano essere venuti qui per portarci i loro segreti, il racconto delle loro esistenze, per mettersi al riparo dalle loro solitudini, dalle loro speranze, e ci rendono implicati nel loro stare lì mentre ci guardano, e noi a nostra volta «siamo implicati nel loro apparire e scomparire, quasi che fossimo qui proprio per questo» (Gianni Celati, Verso la foce).